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Mario Sechi: Antonio Scurati, guai a chi tocca il monopolio della parola
21-04-2024, 08:48
Il tentativo dei Socialisti europei (di cui il Pd è il braccio armato in Italia) è quello di replicare anche nella prossima legislatura il format della “maggioranza Ursula”, ma il “fattore Giorgia”, le capacità diplomatiche del premier e l'ascesa dei partiti conservatori complicano il piano. Serve una guerriglia permanente, la Rai è il palcoscenico ideale, il 25 aprile è l'appuntamento per la Resistenza a Giorgia, l'Antonio Scurati scrittore -partigiano a gettone, il censurato immaginario, è una storia perfetta su cui ricamare, un altro elemento del dossier sullo “Stato di diritto” da esibire a Bruxelles per montare la panna degli “impresentabili”. Meloni è cresciuta nella lotta politica e ha smontato la sgangherata sceneggiatura del bavaglio pubblicando la farneticazione antifascista di Scurati. Uno smash sotto rete che ha steso l'opposizione. Game, set, match. Gli indignati à la carte hanno le antenne che funzionano a senso unico e non beccano mai una notizia, mentre organizzano una gazzarra per il censurato -immaginario Scurati, sono silenti sul caso del procuratore di Firenze, Filippo Spiezia, che ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela del proprio ufficio in seguito a un articolo pubblicato il 13 aprile scorso dal Foglio. Questo sì che è un caso interessante per la libertà di stampa. Silenzio. Il caso Scurati non sarà l'ultimo, il copione è quello di un assalto politico dove la Rai (e non solo) è il campo di battaglia. La televisione pubblica negli ultimi trent'anni è stata governata da un monocolore della sinistra, le altre culture politiche si sono ritrovate sempre in minoranza e regolarmente sotto assedio. Nella passata legislatura Fratelli d'Italia non aveva un rappresentante nel Consiglio d'amministrazione, un'ostracizzazione impensabile in passato. Nessuno ha eccepito, andava bene a tutti, perché la mutazione genetica era compiuta, la Rai militarizzata. Nemmeno l'ingresso del Movimento Cinque Stelle nell'arena politica aveva cambiato le cose, un non -partito non ha una cultura che lo nutre, dunque non è un problema ideologico, al massimo chiede qualche poltrona. La vittoria elettorale di Meloni ha sparecchiato la tavola imbandita, lo schema del banchetto di viale Mazzini. La Rai è una biografia della nazione, il teatro della nostra storia, la più importante industria culturale senza la politica non può esistere. E la Rai ne ha seguito la parabola. L'uscita di scena della Democrazia cristiana e del Partito socialista (che diedero alla Rai intelligenza, moderazione e pluralismo), la saldatura tra i cattolici democratici e gli eredi del Pci, la successiva “fusione” del Pd e della Margherita, hanno consegnato la Rai nelle mani dei nipotini di Berlinguer e dei loro transeunti alleati d'occasione. Il tramonto di una generazione di dirigenti nati a sinistra, ma cresciuti nella Rai del pluralismo (penso a Angelo Guglielmi e Sandro Curzi), dei centristi allevati da Ettore Bernabei (penso a Biagio Agnes e Fabiano Fabiani), dei socialisti modernizzatori e appassionati di mass media (penso a Enrico Manca e Agostino Saccà), l'uscita di figure chiave della macchina narrativa (penso a due innovatori come Brando Giordani e Giovanni Minoli) hanno lasciato la Rai senza “esperienza”, artigiani della notizia e dell'approfondimento. La missione della Rai è così diventata quella di servire una fazione politica via via sempre più confusa, ma salda nello scopo di mantenere il potere della parola. L'osmosi tra programmi in tv e giornali con il cuore a sinistra in questi decenni è stata totale, un congegno lubrificato di porte girevoli dove si alternavano sempre le stesse figure, un monopolio della parola, della voce e dell'immagine in cui “agli altri” (pronunciato con tracotanza) restavano le briciole del pranzo di gala, giusto uno spazio ogni tanto in tribuna, e questo bastava per ribattere alle critiche di chi vedeva un sistema monolitico dell'informazione e della produzione televisiva. Questo meccanismo di cooptazione, selezione ed esclusione del talento (quando c'è) ha finito per trasformare la Rai nel set di un film dove non accade niente e tutto si ripete, la fine della macchina narrativa della televisione. Questo tran tran, piaccia o meno alle anime belle che vaneggiano sull'esistenza di TeleMeloni, è destinato a finire. Non è il governo, non sono i partiti a tracciare la rotta, è la realtà del mercato. Chi non fa non sbaglia, ma la Rai non si cambia in un giorno, i nuovi vertici che sono entrati in corsa nella gestione dell'azienda hanno ereditato una situazione industriale che presenta molte criticità e nuovi scenari competitivi. Un nuovo consiglio d'amministrazione e un nuovo amministratore delegato ne dovranno disegnare il percorso. Giampaolo Rossi è persona colta, preparata, conosce la Rai e merita fiducia. La televisione è la fabbrica dell'immaginario, ma le basi sono quelle concrete della cultura dell'impresa editoriale. La televisione è prima di tutto quello che non si vede. Il primo obiettivo è quello di mettere in sicurezza l'azienda, darle un programma industriale solido, flussi finanziari certi, valorizzarne gli asset materiali e immateriali, gestire al meglio le risorse per imprimere una svolta alla sua missione di servizio pubblico e pilastro fondamentale dell'industria dell'audiovisivo in Italia. Il libello a gettone di Scurati non è la Rai, non è la libertà di stampa, è l'immagine decrepita della sinistra e del piccolo establishment dell'Italia che non ha elaborato il lutto della sconfitta elettorale e difende l'indifendibile, il monopolio della parola.
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